Ritrovarsi con un viaggio
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Avevo circa 7-8 anni. Era una di quelle vigilie in cui fuori faceva freddo e a Milano ancora nevicava.
Già, perché una volta nevicava davvero. Fiocchi grandi, lenti, silenziosi, che si posavano sui davanzali e trasformavano tutto in un paesaggio da cartolina.
Le finestre si appannavano per il calore in casa e l’odore del brodo invadeva le stanze.
Il Natale era ancora una magia: bastavano un dolce, il profumo dei mandarini, un cartone in TV, la presenza dei genitori che per una volta rimanevano a casa invece di andare al lavoro.
E soprattutto: le vacanze dalla scuola!
Potevo stare sveglio un po’ di più, infilarmi sotto la coperta sul divano, guardare un classico film natalizio e lasciarmi cullare dall’attesa.
Aspettavo il momento dei regali con un’eccitazione che oggi, da adulti, è difficile anche solo da spiegare.
Poi, quella mattina, iniziai ad aprire con fervore i pacchetti sotto l’albero, abbandonandoli dopo poco per passare al successivo, come fanno tutti i bambini.
Tra loro c’era anche lei: la scatola di Silvan.
Al momento non ci feci neanche troppo caso. Ma il giorno dopo, la guardai meglio.
Non avevo mai visto nulla del genere. Dentro trovai carte, bacchette, cordini, anelli di plastica colorati e un piccolo libretto con le istruzioni… tutte da decifrare.
Non capivo tutto, ma non importava. Io ci provavo.
Stavo lì per ore, seduto sul tappeto, con la lingua tra i denti per la concentrazione, cercando di far sparire una moneta o far fluttuare un anello con una corda invisibile.
E quando finalmente un gioco riusciva, correvo da mio padre con gli occhi che brillavano:
“Guarda papà, ora la moneta sparisce!”
Lui mi guardava, sorrideva. Sicuramente capiva il trucco… ma non lo diceva. Mi lasciava credere di essere un mago.
Poi toccava alla mamma fare da cavia. Anche lei sorrideva, spesso faceva finta di cascarci e per me…
era come essere in TV.
Io ero Silvan. In carne e ossa.
Quella scatola è stata il mio primo amore magico.
Un amore che mi faceva sognare, che mi faceva credere che con due parole magiche e un gesto della mano… potesse succedere davvero di tutto.
Poi sono cresciuto. Le scuole, gli amici, lo sport.
La scatola finì in un armadio, in alto, sotto le coperte invernali.
Rimase lì a prendere polvere, come tante passioni dell’infanzia che sembrano svanire con il tempo.
Ogni tanto ci pensavo, ma senza troppa convinzione. La vita, si sa, corre in avanti e non aspetta i ricordi.
Ai tempi, ancora non lo sapevo… ma non fui io a scegliere la magia. Fu la magia a scegliere me.
Ma come certe cose che non si dimenticano davvero, anche la magia tornò a cercarmi.
Avevo circa vent’anni.
Sentivo che quella fiammella non si era mai davvero spenta...
La magia era rimasta lì, da qualche parte, sotto la cenere. Silenziosa, ma viva.
Volevo imparare qualcosa di nuovo, riprendere in mano quella passione…
ma non era così semplice.
Non era come oggi, dove basta aprire YouTube e si trovano centinaia di video, tutorial, spiegazioni.
All’epoca, se volevi imparare un gioco di prestigio, dovevi sudartelo.
C’erano solo pochi libri, che ovviamente avevo comprato e riletto centinaia di volte.
Ma soprattutto servivano pazienza, rispetto e passione.
Oggi invece c’è chi, per una manciata di like, rovina tutto il mistero.
Svelano i segreti, si improvvisano maestri e fanno credere a tutti di poter “spiegare” come funziona un gioco di prestigio… e poi chi li segue impara nel modo sbagliato!
Ma la magia, quella vera, non si spiega.
Si vive. Si rispetta. Si custodisce.
E io, anche se non avevo ancora le parole per dirlo, lo sentivo nel profondo.
In primavera, stavo sfogliando gli annunci di lavoro su un giornale.
Volevo trovare qualcosa da fare durante l’estate, un’esperienza che mi permettesse di muovermi, cambiare aria e magari anche guadagnare qualcosa.
Dopo aver passato in rassegna offerte noiose e ripetitive, una frase attirò subito la mia attenzione:
“Cercasi animatori/trici per imminente stagione estiva. Non è richiesta esperienza, ma solo voglia di fare e disponibilità per tre mesi.”
Sembrava scritta per me.
Non avevo mai fatto l’animatore, anzi, ero anche timido. Ma quell’annuncio aveva qualcosa di diverso. Un’energia. Una promessa.
E dentro di me, una vocina disse: “Perché no?”
“Mi diverto, tre mesi di vacanza al mare, magari faccio colpo su qualcuna…
e mi pagano pure.”
Ovviamente, non avevo capito nulla!
Era giugno. La prima volta che partii per lavorare in un villaggio.
Ero in Calabria, in una struttura sperduta tra il mare e le colline bruciate dal sole.
Dormivo in una stanza con altri tre ragazzi, tutti alla prima esperienza, piena zeppa di zaini, magliette, scarpe da ginnastica e sogni di gloria.
Faceva un caldo infernale. Niente aria condizionata. Dormivamo con le lenzuola ai piedi e la speranza che passasse una brezza… che non arrivava mai.
L’unico ad avere una stanza decente era il capoanimatore, che stava da solo.
Le giornate erano infinite. Sveglia presto, riunione mattutina, giochi in spiaggia, tornei, risate forzate, prove spettacoli, serate danzanti e poi di nuovo a letto, distrutto, con la maglietta appiccicata addosso.
Il proprietario del villaggio ci trattava con sufficienza, come se fossimo lì per caso. Nessun sorriso, nessun grazie. Solo ordini secchi, occhi che passavano oltre, parole dette a metà.
Ci sentivamo invisibili.
A metà stagione ero a un passo dall’andarmene.
Ero stanco, nervoso, deluso. Avevo già iniziato a pensare a come dire ai miei che sarei tornato prima.
Ma furono gli altri animatori a fermarmi.
Mi dissero:
“Dai, non puoi dargliela vinta. Hai iniziato, adesso finisci.”
Mi conoscevano da poche settimane, ma in quel momento sembravano amici di una vita.
Con riluttanza, decisi di restare.
E così, giorno dopo giorno, tra una fatica e una risata, ho finito la stagione.
Contro ogni previsione. Anche la mia.
Quando tornai a casa, abbronzato fuori ma svuotato dentro, guardai i miei genitori negli occhi e dissi:
“Mai più nella vita.”
Archiviato il periodo da animatore, sentii che era arrivato il momento di fare sul serio.
La magia non era più solo una curiosità: era diventata un bisogno.
Non era facile, soprattutto all’inizio.
All’epoca non c’era internet come oggi. Non potevi semplicemente cercare “club di magia a Milano” e trovare un sito. Dovevi chiedere in giro, avere fortuna, insistere.
Per caso o forse per destino, riuscii a trovare il numero di telefono di Ottorino Bai, il presidente del CLAM, un’associazione di prestigiatori attiva a Milano.
Lo chiamai.
Con gentilezza, mi invitò a fare un colloquio nella loro sede.
Ricordo ancora quella volta: entrai con il cuore che batteva forte, non sapevo cosa aspettarmi.
Dopo qualche domanda e una breve chiacchierata, mi ammise al corso.
Le lezioni si tenevano ogni venerdì sera, dalle 21 alle 23.
Nel frattempo, nella sala grande accanto, gli altri soci del club organizzavano conferenze, serate a tema, esibizioni.
Ma a noi, gli allievi, era assolutamente vietato partecipare.
Eravamo lì per imparare, non per assistere.
Solo chi avesse completato il corso con successo avrebbe ottenuto la tessera ufficiale di socio e il diritto di entrare a far parte davvero del CLAM. (Club Lombardo Arte Magica).
Fu il mio primo passo nel mondo vero della magia.
E in quel mondo, niente era regalato.
Terminato il corso, per noi allievi qualificati cominciava un nuovo capitolo.
Ottorino ci prendeva sotto la sua ala e ci portava a fare le prime esibizioni di beneficenza, in ospedali, case di riposo, centri per ragazzi.
Era lì che imparavi davvero cosa significava esibirsi: non per sentirsi grandi, ma per far star bene gli altri.
Tra mani che tremavano, risate incerte e qualche trucco mal riuscito, iniziava la vera gavetta.
E lì, ancora una volta, la magia mi ricordò perché l’avevo scelta.
Era di nuovo primavera.
E nonostante la promessa che mi ero fatto l’anno prima, quella frase detta con la sabbia ancora sulla pelle e la stanchezza nelle ossa, decisi di ripartire.
Un’altra stagione.
Un’altra agenzia.
Un altro villaggio.
Sempre al mare.
La verità?
Non ricordo molto di quell’estate.
Tutto passò in modo abbastanza tranquillo, senza scosse.
Lavoro, sì. Ma anche qualche soddisfazione e momenti leggeri.
Alla fine tornai a casa contento.
Questa volta davvero.
Il Clam aveva riaperto dopo la pausa estiva e io non mancavo mai all’appuntamento del venerdì sera.
Mi ero fatto varie amicizie ed era bello scambiarsi i giochi, esibirci tra noi, con i più esperti che ci guardavano e spesso ci suggerivano come perfezionarli.
Tra tutti, scelgo di menzionare Tony Mantovani (The Professor), purtroppo scomparso prematuramente.
Non perché fosse l’unico a meritarselo, ma perché il ricordo dei suoi piccoli consigli mi accompagna ancora oggi.
Semplici, mirati, sempre utili.
Mi aiutavano a migliorare senza farmelo pesare, con quel modo gentile che avevano solo i veri maestri.
Dopo aver provato e riprovato i vari effetti, iniziai anche a esibirmi in alcuni locali.
In quel periodo andava parecchio di moda il prestigiatore che intratteneva i clienti direttamente al tavolo, mentre bevevano o sgranocchiavano qualcosa. E io, finalmente, cominciavo a farne parte.
Poi arrivò la terza stagione. Partii con entusiasmo, destinazione Puglia, con una nuova agenzia. Le giornate scorrevano tra giochi, spettacoli e risate. Ma fu proprio durante una semplice partitella animatori contro villeggianti che successe qualcosa che non dimenticherò mai.
Stavo correndo, tutto tranquillo, nessuno mi toccò. A un certo punto sentii come una stilettata al ginocchio. Crollai a terra. Nessun colpo, nessuna scivolata… eppure capii subito che qualcosa non andava. Rimasi due settimane a letto. I colleghi venivano a trovarmi a fine giornata, cercavano di tirarmi su il morale… ma nessuno pensò di portarmi in ospedale. E nemmeno io, forse per testardaggine o per paura.
Alla fine, stringendo i denti e con il ginocchio dolorante, riuscii a portare a termine quel periodo. Tornato a casa, feci finalmente una visita: i legamenti erano compromessi.
Il medico fu chiaro: “Se non fai il calciatore di mestiere, non serve operare.”
Fu una prova inaspettata, ma anche quella mi insegnò qualcosa.
Fu così che si chiuse anche la mia terza esperienza nei villaggi. Un’estate diversa dalle altre, segnata dal dolore fisico ma anche dalla determinazione di andare avanti.
E proprio mentre il ginocchio si rimetteva, la testa già correva: avevo voglia di rilanciarmi, di crescere ancora.
La svolta
Questa volta, già a febbraio, mi misi alla ricerca di un’agenzia per partire in estate.
Feci vari colloqui, ma la cosa bella era che finalmente ero io a scegliere loro e non il contrario.
Avevo tre stagioni alle spalle.
In più, ero anche un prestigiatore.
Ai tempi pensavo che questa cosa fosse davvero tanta roba...e forse, un po’, lo era davvero.
Alla fine firmai un contratto con un’agenzia di animazione di Assago.
E quando arrivò il momento, partii per la Sardegna.
Un villaggio bellissimo.
Dieci animatori di staff.
Un bravo capoanimatore.
Tutto era perfetto.
Anche qui mi fu assegnato il ruolo di animatore di contatto.
Tradotto, dovevo andare in giro a disturbare, con gentilezza, i poveri villeggianti stesi al sole, rilassati e beati, per convincerli a partecipare ad assurdi giochi aperitivo in spiaggia.
Tipo tenere in equilibrio una pallina su un cucchiaio, facendo lo slalom tra dei coni piazzati sulla sabbia rovente.
Un’impresa quasi eroica.
Per loro, ma anche per me.
Il pomeriggio, invece, era più tranquillo.
Organizzavo tornei vari, come gare di golf, partite a carte, ping-pong e altri passatempi da villaggio.
La gente si divertiva e io pure.
Nel team c’erano anche due ragazze che si occupavano del baby club.
Facevano giocare i bambini, cantavano, disegnavano, insomma… tutto quel meraviglioso mondo fatto di palloncini e urla.
Quando mi vedevano, cercavano sempre di coinvolgermi.
“Dai, vieni anche tu a fare il trenino con i bimbi!”
Io sorridevo, inventavo una scusa e sparivo nel nulla.
Non ne volevo proprio sapere!
C’era poi lei, la coreografa. Silvia, mi ricordo ancora il suo nome.
Durante le pause pomeridiane cercava di coordinare tutto lo staff per preparare un balletto di gruppo da presentare durante le serate.
Poverina, ci ha provato in tutti i modi con me.
Mi spiegava i passi, mi contava il ritmo, mi faceva gesti con le mani… ma niente.
Alla fine si è arresa.
Mi ha guardato con un sorriso e ha detto:
“Sei simpatico, hai tutti i pregi del mondo, ma sei proprio negato a ballare.”
Poi rivolgendosi al capoanimatore aggiunse:
“Senti, lascia perdere… non metterlo nella sigla!”
Dopo tutti quei piccoli disastri, per fortuna c’era la sera.
Era il mio momento preferito.
Una volta a settimana ero riuscito a convincerli a farmi presentare il mio piccolo show di magia, da una ventina di minuti.
Mi avevano messo come finale della serata di cabaret.
Prima, partecipavo alle scenette comiche, quelle in cui cercavamo di far ridere tutti con parrucche colorate, battute discutibili e travestimenti improvvisati.
Poi, di corsa, mi cambiavo.
E finalmente salivo sul palco come mago.
Lì ero nel mio mondo.
Il pubblico che ascolta, gli sguardi curiosi, l’applauso dopo un effetto ben riuscito…
Era tutta un’altra musica.
Quella stagione passò in un soffio, tra sorrisi e giornate di sole.
Al mio rientro, mi contattò Claudio il responsabile dell’agenzia.
Mi fece i complimenti per il lavoro svolto e mi chiese se fossi interessato a collaborare con loro anche durante l’inverno.
Organizzavano eventi, animazione nei centri commerciali, feste private…
Non ci pensai due volte.
Accettai con entusiasmo.
Pian piano, le cose iniziarono a muoversi.
Alcuni locali cominciarono a chiamarmi con una certa regolarità.
Pub, ristoranti, lounge bar.
Una volta a settimana, quasi sempre lo stesso giorno, mi ritrovavo lì, con le carte in tasca e la voglia di stupire.
Ogni tanto Claudio mi proponeva qualche intervento nei centri commerciali.
Animazione, qualcosa di dinamico per attirare gente.
Ma non era una cosa frequente.
La vera costanza, in quel periodo, arrivava dai locali.
Ed era già un grande passo.
Stavo passando un pomeriggio tranquillo, quando ricevetti una chiamata.
Era lui, Claudio.
La proposta che mi fece mi colse alla sprovvista.
“Lo so che non fai spettacoli per bambini, ma fammi un favore,” mi disse.
“La prossima settimana un mio amico organizza la festa di compleanno per suo figlio.
Il bambino adora le magie… vorrebbe tanto un mago per il suo giorno speciale.”
Io, all’inizio, glielo dissi chiaramente.
“Guarda che non è che non voglio, eh. È proprio che non sono capace.
Con le carte me la cavo e riesco a divertire gli adulti con le battute. E’ il mio modo di fare…
ma con i bambini?
Eh… con loro non so proprio come comportarmi”
Ma non potevo dirgli di no.
Alla fine, a malavoglia, accettai.
“Boh… studierò qualcosa,” dissi, cercando di sembrare più sicuro di quanto fossi davvero.
Poi chiusi la chiamata e rimasi lì, con il telefono in mano, a fissare il vuoto.
Uno spettacolo per bambini.
Io.
Non avevo la più pallida idea di dove cominciare.
Il giorno dopo la festa, mi telefonò di nuovo Claudio.
“Robik, è andata bene! I bambini si sono divertiti un sacco e il mio amico è stato davvero contento.
Mi ha detto che sei stato perfetto!”
lo ringraziai, ma la verità è che non ero affatto convinto.
Perfetto?
Boh… se lo dice lui.
Eppure, avevo fatto i miei soliti giochi.
Avevo cambiato la presentazione, cercando di renderla più semplice, più leggera…
più adatta a loro. Tutto qui.
Un mesetto dopo, ecco che mi viene proposto un altro compleanno.
Di nuovo.
Sempre bambini.
Accettai, ancora con una certa riluttanza.
Non per maleducazione o snobberia, ma perché dentro di me… non era quello il palco che sognavo.
A me piaceva fare spettacoli per gli adulti.
Battute, ritmo, carte, stupore.
In quel mondo lì mi sentivo nel mio.
E invece, in quei momenti, mi sembrava quasi di essere un mago di serie B.
Un pensiero che mi passò per la testa, lo ammetto.
Ma poi…
Arrivò anche quell’anno la proposta di Claudio.
Stesso villaggio in Sardegna. Bello, organizzato, con uno staff già formato.
Sulla carta, tutto perfetto.
Ma dentro di me qualcosa stonava.
Sentivo che stavo entrando in un giro sempre uguale: stessi schemi, stessi ruoli, stessa formula.
Niente di male, eh.
Solo… non sentivo più quella scossa.
Poi successe una cosa che, a ripensarci oggi, sembra quasi scritta.
Un giorno, per curiosità, andai alla Fiera del Turismo, il BIT Milano.
Mi piaceva respirare quell’aria di partenze, brochure colorate e sogni in offerta speciale.
E lì, in mezzo a tutto quel caos organizzato, lo vidi.
Un banchetto semplice, con un cartellone blu e un nome che mi rimase impresso: Agenzia Piuma Gialla.
Dietro al tavolo, un tipo con gli occhiali da sole, il sorriso pronto e una sicurezza naturale
che non sembrava esibita, ma vera.
Mi avvicinai, attirato più dal suo modo di fare che dal suo stand.
Lui mi guardò e con naturalezza, disse:
“Ciao, sono Giangi. Giangi Paris.”
Non ricordo bene come ci siamo messi a parlare, ma so che dopo cinque minuti stavo già ridendo.
E alla fine di quella chiacchierata, lui mi disse:
“Se questa estate vuoi fare qualcosa di diverso… chiamami.”
Ecco, lì qualcosa si mosse davvero.
Ci pensai un mesetto.
Avevo già una proposta sul tavolo, quella di Claudio.
Ma non riuscivo a smettere di pensare a quella chiacchierata con Giangi.
A quel suo modo di raccontare le cose, a quell’energia.
Sembrava uno che sapeva dove voleva andare.
E forse, senza accorgermene, anch’io volevo andare da un’altra parte.
Alla fine lo chiamai.
“Ciao, sono Robik.
Quella cosa per l’estate… io ci sto.”
Quando arrivò il caldo, tornai in Calabria.
Non era la mia prima volta da quelle parti, ma stavolta l’aria era diversa.
Il villaggio era carino, più piccolo rispetto a quelli dove avevo lavorato prima, ma curato, accogliente.
Il mare lì aveva un colore che sembrava disegnato.
Quando arrivai, era tutto ancora un po’ in fase di partenza.
Addetti alla reception indaffarati, qualche ospite si stava sistemando e uno staff di animazione ridotto all’osso: cinque o sei persone in tutto, me compreso.
Non conoscevo nessuno.
E per un attimo mi chiesi se avessi fatto la scelta giusta.
Poi lo vidi.
Giangi.
Con quella sua solita camicia colorata e il sorriso.
Mi venne incontro con un’espressione che sembrava dire: ci divertiremo un sacco.
“Eccolo! Sei pronto a cominciare?”
Nelle stagioni precedenti mi avevano sempre assegnato al ruolo di animatore di contatto.
Questa volta, invece, fui io a chiederlo.
Avevo capito che era proprio quello che mi piaceva: essere una specie di jolly, parlare con la gente, senza un’attività fissa.
Mi muovevo tra i giochi aperitivo in spiaggia, i tornei pomeridiani e tutte quelle situazioni in cui bastava un sorriso per creare complicità.
Ma oltre a quello, c’erano almeno mille altre cose da fare.
Eravamo pochi e serviva l’aiuto di tutti.
Bisognava gestire l’animazione quotidiana, sistemare i nostri costumi, costruire a mano quello che mancava, inventarsi giochi con poco e poi fare le prove per le serate.
Ogni giornata era piena.
Stancante, certo.
Ma anche tremendamente viva.
Dopo un mesetto, eravamo tutti rodati.
Lo staff girava alla grande, il ritmo era intenso ma funzionava.
Il proprietario del villaggio era contento e i clienti, che cambiavano ogni quindici giorni, ci lasciavano dediche, numeri di telefono e indirizzi, invitandoci ad andare a trovarli a stagione finita.
Ovviamente… non ci è mai stato possibile, come potrai immaginare.
Forse da qualche parte, in cantina, ho ancora quell'agenda con tutti quei vecchi nominativi.
Lavoravo dalle otto del mattino fino a mezzanotte.
Tutti i giorni.
Ma, nonostante la stanchezza, riuscivo anche a trovare il tempo per fare qualche conquista nel cuore delle ragazze!
Giangi non era solo il responsabile dell’agenzia che aveva firmato il contratto con il villaggio.
Aveva deciso di prendere anche il ruolo di capo animatore.
E per fortuna.
Con un microfono in mano, sembrava Fiorello…
Era in grado di intrattenere centinaia di persone con il nulla.
Faceva ridere, faceva ballare, coinvolgeva chiunque.
Qualsiasi cosa gli venisse in mente, il pubblico la eseguiva.
Senza esitazioni.
Come ipnotizzati.
Aveva carisma da vendere, ma lo usava con leggerezza.
E quando parlava… ti veniva voglia di seguirlo.
E così, piano piano, ci avvicinammo alla fine della stagione.
Ma stavolta era diverso.
Non era solo la fine di un’estate, era la fine di un percorso che mi aveva cambiato.
Per la prima volta capii cosa significava davvero fare animazione.
Le stagioni precedenti erano state esperienze utili, certo…
ma questa?
Questa era stata una scuola.
Una scuola vera.
Giangi mi aveva insegnato più di quanto avrebbe dovuto.
Mi aveva dato sicurezza, tecnica, ritmo.
Mi aveva mostrato come si maneggia un microfono,
a parlarci dentro, senza paura.
E soprattutto… come si fa una vera animazione,
con rispetto e simpatia.
Con un sorriso, una parola giusta, una battuta ben piazzata.
E lì, finalmente, cominciai a capire chi stavo diventando davvero.
Gli anni scorrevano tra serate magiche nei locali, sempre più apprezzate e stagioni nei villaggi pieni di sorrisi, dove ho vissuto avventure incredibili al fianco di Giangi e della sua tribù. Ricoprendo ruoli sempre più importanti, fino a diventare io il capo animatore…e lui il capo villaggio! Chi l’avrebbe mai detto?
Dopo tutto questo tempo siamo ancora amici e ogni tanto ci capita di collaborare per eventi speciali, continuando a condividere quella passione che ci univa fin dall'inizio.
Poi piano piano cominciai ad appassionarmi sempre di più agli spettacoli per bambini.
Vederli stupirsi per un gioco semplice, per una carta che spariva o una moneta che riappariva, mi infiammava il cuore.
C’era qualcosa di puro, di autentico, che non avevo mai sentito davvero, fino a quel momento.
Il loro entusiasmo era contagioso.
E io che all’inizio ero titubante… poi non vedevo l’ora di esibirmi. E oggi, ogni loro sorriso mi emoziona come allora.
Se sei arrivato fin qui a leggere… allora sì, sei una persona speciale.
Vuol dire che dentro di te c’è un pizzico di magia, di quella vera.
E per ringraziarti, ho pensato a un simpatico regalo:
quando ci sentiremo, se mi dirai che hai letto tutta la mia storia,
regalerò al festeggiato/a un dono magico, preparato con cura da me.
Perché la magia più bella nasce proprio da momenti come questo…
vissuti fino in fondo, con il cuore.
E se semplicemente ti va di farmi sapere che ti è piaciuto questo viaggio tra i miei ricordi, anche senza una festa da organizzare… mi farà comunque molto piacere ricevere un tuo messaggio WhatsApp.
Avrei tante altre cose da raccontarti…
Come quei pomeriggi passati insieme al mio idolo d’infanzia: il grande Mago Silvan.
Oppure quella volta che ho giocato a carte con Terence Hill…
Ops, volevo dire Tony Binarelli!
(Piccola curiosità: lo sai che in "Continuavano a chiamarlo Trinità", le mani che si vedono mentre gioca a poker non sono quelle di Terence, ma proprio di Tony?)
E poi ci sarebbero mille altre storie da condividere, da non poterle raccogliere nemmeno in un libro intero.
Con il cuore nel passato e lo sguardo nel futuro.
A volte vorrei tornare indietro
A volte mi basta una foto,
una voce nella memoria
o il profumo dell’estate…
Chiudo gli occhi e vorrei tornare lì,
dove tutto è incominciato...
Sotto quel cielo limpido,
con la valigia piena di costumi improbabili,
le scenografie dipinte a mano
e il cuore pieno di voglia di fare.
Vorrei risentire quel microfono gracchiante,
rivedere Giangi entrare in scena,
abbracciare gli amici con cui ho condiviso notti senza orologio e applausi che sembravano infiniti.
Erano tempi semplici.
Ma erano veri.
E ogni volta che salgo su un palco oggi…
una parte di me è ancora lì: con il costume americano, il cappello buffo in testa e quel sorriso un po’ timido che sapeva già di sogno.
Non si può tornare indietro.
Ma si può raccontare.
E forse, così…
ci si torna davvero.
Robik